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Bambole di plastica: la nascita della Barbie

Tempo di lettura: 3 minuti
Bambole di plastica: materiale nuovo creato attraverso complicati processi di sintesi chimica, la plastica ha offerto all’ottimismo industriale ottocentesco la sensazione di poter disporre di un materiale polifunzionale, adatto agli utilizzi più vari. Probabilmente, allora, nessuno poteva immaginare l’enorme importanza tecnologica e l’influenza sullo sviluppo odierno che tale sostanza avrebbe avuto.

Gli anni della plastica

I primi oggetti in plastica, la Parkesina, furono presentati all’Esposizione Universale di Londra nel 1862. Impiegata ovviamente nel settore dei giocattoli, trova dei precedenti storici nella gomma, utilizzata all’inizio dell’Ottocento per realizzare bambole infrangibili estremamente semplici e competitive rispetto alle altre coeve. Altro materiale che si affianca a questi è la guttaperca, una sorta di gomma rigida, che sappiamo utilizzata per costruire splendidi corpi articolati di bambole francesi con testa in biscuit, Bru, Schmitt, Huret. Il miraggio di poter immettere sul mercato una bambola infrangibile attirava i vari produttori che ne provavano le possibili combinazioni, senza però raggiungere mai l’alta qualità che l’impiego della porcellana garantiva. Un esempio di bebé Bru con testa in guttaperca ben chiarisce la netta differenza con i suoi coetanei di biscuit, nonostante l’impegno esecutivo profuso nelle finiture e nella decorazione del volto. È comunque dopo la Seconda Guerra Mondiale che, in Europa, le materie plastiche si impongono su vasta scala, ormai specializzate e studiate in America e sinonimo di efficienza, modernità, igiene. Durante i mitici anni Cinquanta le bambole di plastica americane conquistano letteralmente le ragazzine europee ancora abituate alle pupe di celluloide, composizione, gesso, stoffa. Leggere, lavabili, realizzate con colori piacevoli, hanno capelli di nylon duraturi, pronti a sopportare anche i classici cento colpi di spazzola.

1959: nasce la prima Barbie

Nel 1955, in Germania, riscuote notevole successo una striscia di fumetti che appare quotidianamente su di un giornale e che ha per protagonista una formosa ragazza di nome Lilly. Lilly rappresenta l’evoluzione moderna e disinibita dell’italiana signorina “Grandi Firme”, di precedente memoria: ha lunghe gambe tornite, vita sottile, seno prorompente, ha la coda di cavallo e indossa sempre scarpe con tacchi alti. In pratica incarna il tipo ideale di ragazza degli anni del boom economico. Un simile evento non sfugge a una ditta americana, la Mattel, che vede in questa bambola un potenziale commerciale notevole, immagine ideale da proporre ai bambini moderni. Pochi anni dopo nascono così le bambole di plastica Barbie, il più grande fenomeno sociale ed economico nel mondo della produzione seriale delle bambole. Praticamente identica alla sua ispiratrice Lilly, si evolve con rapidità incredibile, sull’onda dello stile di vita “made in U.S.A.”, circondandosi di fidanzati, sorelline, amici di varie razze, propagandando il mito del benessere d’oltreoceano, della bellezza plastificata e stucchevole di hollywoodiana memoria. Barbie rappresenta il trionfo della plastica e dei materiali sintetici, di cui gran parte del suo guardaroba è fatto, così come la casa e i gli accessori. Durante gli anni Settanta e Ottanta conquista il mercato mondiale, sostenuta dal mito dell’apparenza che si va diffondendo tra le culture occidentali e orientali altamente tecnologiche.  

Anni ’90 nascita delle bambole di plastica computerizzate

Gli anni Novanta assistono alla nascita di bambole computerizzate, all’interno delle quali i microprocessori contengono centinaia di informazioni atte a fare di questi oggetti veri “androidi”. Parlano, ragionano, interagiscono con il bambino, possono “crescere” intellettualmente dall’età di pochi mesi fino ai due anni, adeguando il loro linguaggio, comportamento e movimenti. Dotate di appositi sensori, dislocati in vari punti del corpo, sono “sensibili” agli stimoli esterni quali il solletico, le carezze, i colpi, manifestando ogni volta opportune reazioni. Giudicate inquietanti dagli adulti che in fondo si divertono più dei bambini, dagli psicologi infantili, inorriditi e sostenitori del gioco “semplice”, fanno discutere e sorprendono. Come sempre accade nelle storie di bambole, spesso il vero destinatario, il bambino, viene perso di vista e l’attenzione principale è rivolta all’acquirente adulto, alla sua curiosità sempre stimolata da nuove proposte.
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