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Le bambole meccaniche

Tempo di lettura: 9 minuti

“… Domandai al Bonini se avesse delle bambole meccaniche con il fonografo dentro. Mi rispose che n’aveva avute; ma che non ne possedeva più. – Il modello che avevo fatto venire – soggiunse – cantava una strofetta francese e poi faceva una risata… Ma sa, di quelle risate sguainate, da canzonettiste parigine, che in una famiglia per bene fanno un brutto sentire… – Bambole corrotte, osservai ha fatto bene a farle fuori, perché… basta alle volte una sola anche in un grande magazzino… – Ed ero sul punto d’aggiungere: – … per guastare tutte le altre, ma rinvenni a tempo dalla mia distrazione e fermai al volo lo sproposito”. E. de Amicis, Il re delle bambole.

Bambole meccaniche: simili all’uomo

La volontà di animare le bambole meccaniche, di renderle più simili all’uomo, quasi a perpetuare il mito della genesi, affonda radici in un passato assai remoto.
Petronio, verso il terzo secolo avanti Cristo, parla di una bambola in argento capace di imitare le movenze di un essere umano.
Sono certamente fatti non più verificabili ma rimane indubbio che l’uomo si vede come assoluto protagonista e dominatore del mondo, in funzione della ragione, ma purtroppo senza termini di paragone tangibili.
L’ingegno allora si volge alla ricerca, anche se essa è finalizzata solo allo stupore; quasi a volere confermare la semi-divinità umana.
Dare vita a creature inanimate, prodotte più o meno artigianalmente, diviene così ambizione sfrenata e punto di confronto con gli dei che sovrastano l’uomo.
Bisogna arrivare a tempi relativamente recenti, si parla del XVIII secolo all’incirca, perché si possano trovare testimonianze reali di queste “creature” o ” automi”, uscendo almeno in parte dalla mitologia pura che il racconto tramanda. È questo un secolo che vede le corti più ricche d’Europa divertirsi a ricercare gli oggetti più incredibili, quasi una gara d’ingegno.
Da una parte le arti trionfano, dall’altra la tecnologia appare ancora velata di mistero e magia. Sono gli anni in cui nascono i celebri “androidi” di Pierre Jacquet Droz, costruiti tra il 1768 e il 1774 da questo orologiaio svizzero insieme ai suoi due figli.
Sopravvissuti e giunti fino a noi, sono oggi visibili al Museo di Arti e Storia di Neuchatele, rappresentano una delle punte di maggiore e inquietante verismo che la meccanizzazione può avere prodotto su “bambole” inanimate.
Si tratta di tre personaggi, due bambini e una fanciulla. Il primo, chiamato Charles, fa lo scrivano, può scrivere infatti un messaggio lungo fino a quaranta lettere, andare a capo, lasciare spazio, intingere la penna d’oca nel calamaio. Il secondo, Henri, detto il disegnatore, può eseguire quattro diversi schizzi a matita; un bambino con una farfalla, un ritratto di Luigi XV, i profili di Giorgio III e della moglie Charlotte di Mecklenberg e, per ultimo, un cagnolino.
Il terzo androide è forse il più affascinante: si tratta di una vezzosa giovane intenta a suonare un organetto a canne. Può eseguire cinque melodie differenti seguendo con gli occhi e con la testa le dita sulla tastiera. Inoltre “respira” tramite un sistema di mantici che le fa alzare e abbassare il petto, e compie tutta una serie di movimenti del capo che ne
accrescono l’effetto di notevole realismo.
Il suo nome è Marianne, a ricordo della giovane e defunta moglie di J. Droz. Sono oggetti emblematici così vicini al reale da superarlo ed entrare in una dimensione quasi
onirica; questo per la ripetitività eterna del gesto, di quell’azione calibrata e misurata al centesimo che distrugge, con il suo esistere finale, il sogno dell’uomo come “creatore”.
Altri nomi mitici arrivano dal passato, ma purtroppo non vi sono più le fantastiche creature a confermare tanta meraviglia.

Jacques Vaucanson

Jacques Vaucanson passa alla storia per aver costruito tra il 1737 e il 1741 una serie di automi tra i quali enorme successo riscuote un’anitra capace di imitare perfettamente i reali movimenti dell’animale, di beccare del grano e, tramite una soluzione chimica, di “eliminarlo” in modo del tutto simile a quello naturale.
A Wolfgang von Kempelen si deve, nel 1778, la costruzione di un celebre automa giocatore di scacchi; si racconta che nel 1809 Napoleone perdesse una partita giocando con questo androide, forse l’imperatore non era un buon giocatore, ma certamente non era al corrente che all’interno della scatola atta a sostenere il meccanismo vi era un uomo, attento a osservare tramite un sistema di specchi le varie mosse, e quindi a indirizzare la risposta dell’automa.
L’iniziativa, la libera scelta, non è mai stata prerogativa delle macchine, e questo pare essere ancora oggi, nell’era del computer, il grande cruccio dell’uomo-creatore.
Durante l’Ottocento, i fabbricanti di bambole rivolgono la loro attenzione alla messa a punto di dettagli tecnici e meccanici volti ad attribuire alle bambole meccaniche alcune di quelle funzioni primarie, tipiche e inconfondibili, dell’essere umano.
Nel tentativo di umanizzare il più possibile questo simulacro, per avvicinarlo maggiormente alla sfera affettiva del bambino e, successivamente, farne anche un prodotto in grado di divertire i grandi, la prima ricerca s’indirizza sulla voce, sulle fatidiche parole che fanno vibrare di tenerezza i cuori di tutti i genitori allorché l’infante, tra borbottii e balbettamenti, mormora i fatidici “mamma” e “papà”.

I primi meccanismi vocali per le bambole

I primi meccanismi per voce sono assai rudimentali, generalmente di elementare funzionamento grazie a un soffietto in pelle o pergamena sfrutta la pressione manuale e l’emissione d’aria, provocando degli squittii che ben poco hanno a che vedere con le tanto attese parole!
Questi meccanismi generalmente sono contenuti nel ventre della bambola e, già in uso durante i primi anni dell’Ottocento, rimangono per tutto il secolo in quelle bambole più povere che, non avendo potuto “studiare”, non sapranno mai  parlare correttamente come le loro ricche sorelle aristocratiche.
Il sistema a soffietto lo troviamo in pupe tipo Motschmann, in alcune bambole di cera e di cartapesta.
Un giornalino per bambini, “Le bon Génie”, ci informa che all’Esposizione dell’Industria Francese del 1823 vi erano bambole che dicevano “Maman” se si toccava loro la mano destra, e “Papa” se si toccava loro la sinistra, e questa invenzione fu appunto brevettata da Maelzel nel 1824. Un avviso economico dell’epoca dice testualmente: “Per sei franchi muovo gli occhi e giro la testa. Per dieci franchi dico Papà e Mamma”. (A. Fraser, Bambole, 1964).

Bebè parlante automatico

Un sistema già più raffinato è quello che, messo in azione da un meccanismo a molla, permette alla bambola di chiamare mamma se tenuta diritta e papà se coricata. È quello già citato per un “bebè parlante automatico” del 1862, brevettato da J.N. Steiner.
Sempre nel corso di continui perfezionamenti la ditta Steiner deposita un altro brevetto per la voce, esattamente nel 1892, sotto la direzione Lafosse; un soffietto perfezionato per bebè, bambole meccaniche e non. Questi meccanismi, generalmente montati in metallo leggero, recano incisa l’iscrizione “Steiner”.
Possono così certificare la paternità di alcune bambole più vecchie che non presentano esternamente marchi particolari.
In molti modelli, specialmente nei bebè prodotti dal 1870 in poi, la voce viene azionata tramite due funicelle che fuoriescono lateralmente dal busto, tirando le quali si hanno due caratteristici suoni; mamma e papà.
Anche la Maison Bru, nella sua produzione di bambole di lusso, presta estrema attenzione alle innovazioni relative alla voce e ad altri sistemi di animazione.
È del 1867 un brevetto di L.C. Bru per una “Poupée-Criante”, si tratta ancora con molta probabilità di una bambola a fisionomia adulta.
Nel 1872, Madame Bru ottiene un brevetto per un “Bebé Surprise”, presumibilmente con corpo in legno, metallo o caucciù, contenente un carillon.
Questa prolifica ditta immette sul mercato una serie di bebè sempre più perfezionati nelle varie funzioni, il sistema della voce si adegua a quelli a soffietto più o meno in uso da parte delle altre aziende e diviene comune in moltissimi modelli.
Con la gestione di P. Girard, un nuovo brevetto si aggiunge ai già numerosi e si riferisce a un bebè automatico che può parlare, respirare e dormire; siamo nel 1895.
Dal 1885 la Maison Jumeau segue, attraverso l’utilizzo del meccanismo ad aria azionato da cordicelle inserito nel busto, il sistema corrente per dare voce alle bambole che, per l’occasione, hanno la bocca aperta.
La novità assoluta che catalizza l’interesse di E. Jumeau è l’avvento e la diffusione del fonografo di T. Edison, già presente all’Esposizione Universale del 1889, che egli vorrebbe poter adattare ai suoi bebè migliorandone così le caratteristiche vocali.
L’impresa non si presenta facile, anche perché altri sono già arrivati a produrre una “poupée Phonographe Merveilleuse”, come la Maison Stranky che utilizza il sistema Edison, presente sul mercato tra il 1891 e il 1894 proprio quando compare il modello definitivo di Jumeau.
E. Jumeau collabora con Henry Lioret, orologiaio, insieme mettono a punto il “Lioretgraph Bébé Jumeau” che compare nella sua versione perfezionata nel 1893.
Viene utilizzata una bambola corrispondente alla taglia numero 11, montante una testa a bocca aperta, nel cui busto trova alloggiamento il complesso meccanismo per la voce che permette al bebè di pronunciare frasi composte di circa sessanta parole di vario argomento, questo a seconda del disco inserito.
Se le bambole bene o male, tra vagiti incomprensibili e chiacchierate amene riescono a esprimersi, tra la gioia esterefatta dei presenti, molte altre innovazioni accompagnano questa loro “umanizzazione”.

Bambole meccaniche che aprono e chiudono gli occhi

Importante e primordiale è l’esigenza di fare chiudere e aprire gli occhi, per simulare il sonno e la veglia che le attente cure delle padroncine richiedono imperiosamente.
Verso la metà dell’Ottocento alcune bambole in cera, o in cera su composizione, montano meccanismi attivabili manualmente tramite una cordicella che fuorisce dal busto ed è collegata agli occhi: tirandola questi si chiudono.
Sono comunque sistemi piuttosto rudimentali e non garantiscono un funzionamento perfetto e duraturo; molte di quelle pupe sono giunte a noi con le orbite orribilmente vuote o con sguardi strabici e decisamente sinistri.
L’industria francese segna le tappe anche nell’evoluzione di questi brevetti, già famose per gli inimitati “occhi umani”, caratteristici di queste bambole, la volontà di renderli mobili porta a soluzioni veramente interessanti.
Steiner mette a punto quattro brevetti, due nel 1880 e due nel 1881, per un sistema di mobilizzazione degli occhi azionato da una levetta in metallo che fuoriesce dalla nuca.
Gli occhi di questa ditta sono particolari: l’iride in vetro variamente colorato è inserito in una “pastiglia” di biscuit bianco, il tutto collegato da perni metallici a un ponticello di legno posto trasversalmente all’interno della testa e terminante con la suddetta leva.
Anche Jumeau brevetta diversi sistemi attratto dalla possibilità di far “dormire” le bambole.
Nel 1885 deposita un brevetto che permette ai suoi bebè di chiudere le palpebre, facendo seguito a quello analogo di L.C. Bru del 1882; non sembra però molto funzionale a causa di un ampio spazio che rimane tra l’occhio e la palpebra. Nel 1886 perfeziona tale sistema.
Con il 1887 un altro brevetto riguarda questa volta il movimento dei soli occhi, muniti di ciglia, tramite una “farfalla” di metallo o piccolo perno posti sulla nuca.
Per ultimo il brevetto del 1896 semplifica il sistema rendendolo più silenzioso e funzionale grazie all’utilizzo di un bilancere. Gli occhi che si chiudono grazie a un bilancere in
piombo per il semplice effetto gravitazionale determinato dall’inclinazione della bambola e dalla conseguente rotazione del peso e dei globi, costituiscono il metodo più comunemente diffuso, largamente usato da tutti i fabbricanti francesi e tedeschi. Si basa sullo stesso principio anche lo sguardo “Flirting”, oscillante da un lato all’altro, utilizzato con notevole successo su alcune teste della produzione di Simon & Halbig.
A questo punto le nostre bambole parlano, possono lanciare sguardi pieni di civetteria, ma, non ancora contente, tentano un’altra dura prova: al pari di bambini incerti provano a camminare da sole.
Questo in realtà non avviene se non per alcuni modelli in grado di autosostenersi, facendo “scorrere”, più che camminare nel senso comune del termine, gli arti inferiori grazie a rotelle inserite sotto le suole.
Tra le più note di questo tipo troviamo la “Autoperipatetikos”, brevettata nel 1862 in Europa e in America da Enoch Rice Morrison.
Sul corpo metallico, abbastanza rudimentale e sapientemente nascosto dall’ampia veste, venivano montate teste di porcellana lucida o paria con lineamenti e acconciatura modellati e dipinti.

Le bambole camminano grazie a un meccanismo a molle

Altre bambole, ad esempio quelle fabbricate da Alexandre Nicholas Théorude, attivo a Parigi tra il 1842 e il 1895, riescono a “camminare” tramite un meccanismo a molla che aziona un disarmante “triciclo” nascosto alla vista dalla sottana.
Un sistema semplificato per far camminare le bambole è quello che, tramite il collegamento con corde delle gambe rigide alla testa e il “trascinamento”, accompagnando la pupa per un braccio, le permette di portare una gamba davanti all’altra e girare la testa a cadenzare il passo; si tratta di un metodo molto usato anche nel 1900 per bambole economiche e di media qualità.
Meccanismi sofisticati con funzionamento a orologeria vengono invece brevettati da Steiner: nel 1890 nasce il “Bébé Premier Pas”, nel 1893 il sistema viene semplificato continuando a essere montato su bambole parlanti e camminanti.
Jean Roullet e Ernest Decamps, associati dal 1889, siglano le loro creazioni meccaniche, automi e giocattoli, con le iniziali R-D che compaiono sui loro brevetti e sulla chiave dal 1886.
A loro si deve una bambola camminante brevettata come “L’Intrépide Bébé”, del 1893, di grande successo e dall’ottimo funzionamento a orologeria che imita perfettamente il passo umano.
Alcune di queste pupe montano teste a bocca chiusa prodotte da E. Jumeau, altre da ditte tedesche come Simon & Halbig, generalmente a
bocca aperta. Anche la Maison Bru si allinea presto e sotto la guida di P. Girard immette sul mercato il “Bébé Petit Pas” nel 1891, appena brevettato.
Tra le altre invenzioni di queste prolifica ditta volte ad accentuare il realismo della bambola non possiamo dimenticare il famoso “Bébé Teteur”, brevettato nel 1879, in grado di “bere” il latte da un biberon, questo grazie a un contenitore di gomma posto all’interno della testa.
E opportuno osservare che i primi modelli di questo tipo hanno teste in biscuit su corpi di legno e composizione forniti dalla ditta Steiner, così come appare nel disegno del brevetto.
Si parla nella pubblicità del tempo anche di un “Bébé Gourmand”, in grado di mangiare e “digerire” (?).
Vi sono dei dubbi sul brevetto e sulla sua origine, e la rarità non aiuta certo a chiarire le idee. Del 1867, con migliorie del 1868, è il brevetto di una “Poupée Surprise”, bambola a doppia faccia che può cambiare espressione ruotando la testa manualmente su di un perno, presentando un viso piangente e uno allegro, oppure sveglio o dormiente.
Questo tipo di bambola a varie espressioni o “multi-facedoll”, come viene comunemente denominata dai collezionisti, ottiene durante gli anni un grande successo. Dall’idea di L.C. Bru molte fabbriche tedesche traggono ispirazione per grandi produzioni in serie: è il caso di Carl Bergner che nel 1904/5 inonda letteralmente il mercato con la sua celebre bambola a tre facce (piange, dorme, ride), di analogo funzionamento e siglata con stampo ad inchiostro blu sul tronco con le iniziali C-B.

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